La quindicesima edizione di Manifesta (1) è davvero molto metropolitana! La biennale nomade d’arte contemporanea che dal 1996 coinvolge il tessuto urbano e sociale delle città europee – e considerata tra le iniziative artistiche più influenti a livello internazionale insieme alla Biennale di Venezia e a Documenta di Kassel – quest’anno è ospitata a Barcellona e in altre undici città della Catalogna: Badalona, Hospitalet de Llobregat, Cornellà de Llobregat, El Prat de Llobregat, Sant Adrià de Besòs, Mataró, Sabadell, Granollers, Santa Coloma de Gramenet, Sant Cugat del Vallès e Terrassa. Un’area metropolitana di oltre tremila chilometri quadrati, dove vivono più di 5 milioni di persone, caratterizzata da una considerevole varietà geografica e da una serie di disparità economiche, sociali e culturali piuttosto profonde. Una vera e propria ridefinizione della topografia del territorio che disegna una sorta di contea immaginaria dove i cittadini catalani sono parte di un’unica grande regione filosofica e culturale, una ridefinizione che ha come scopo indagare problematiche precise simili ad altre città di tutto il mondo, come ad esempio la necessità di proteggere le risorse naturali dall’espansione urbana, la valorizzazione del patrimonio locale, le disuguaglianze sociali e il decentramento del turismo di massa, evitando in questo modo la concentrazione tipica dei grandi eventi, spesso responsabile di processi di gentrificazione (ne so qualcosa passando molto del mio tempo a Venezia, non per diletto ma per lavoro!).
L’obiettivo di questa edizione è – Manifesta chiude le sue porte il 24 novembre – l’esplorazione di una serie di strutture urbane e di mobilità alternative, modi nuovi per connettere comunità e infrastrutture sociali e artistiche, nuovi possibili modelli di decentramento della cultura contemporanea. Un’edizione composta da tre cluster sparsi in un’estesa regione metropolitana che interessano tre temi: Imagining Futures – Immaginare il futuro, Cure and Care – Curare e prendersi cura e Balancing Conflicts – Bilanciare i conflitti.
A ciascun cluster trattato corrisponde una zona specifica da raggiungere ed esplorare. In particolare, Balancing Conflicts esplora il bacino e la foce del fiume Besòs, a suo tempo uno dei fiumi più inquinati d’Europa; Imagining Futures ti fa conoscere il Delta del Llobregat e l’aeroporto del Prat, il cui ampliamento minaccia fortemente l’ecosistema del fiume e del suo delta, oltre alla vita dei comuni limitrofi; Cure and Care, invece, ti porta dentro la catena montuosa del Collserola. Davvero tanti i chilometri percorsi per visitare le sedi di queste tre aree. E, sì, ne è valsa la pena.
Dei 92 artisti molti sono spagnoli (tra gli altri Antoni Miralda, Antoni Tápies e Aurelia Muñoz); tra gli artisti internazionali, 5 sono italiani (Chiara Camoni, Bea Bonafini, Binta Diaw, Masbedo e Claire Fontaine); sono presenti molte artiste e un buon numero di collettivi, come molte sono le proposte multidisciplinari (pittura, videoarte, scultura, performance, installazioni, eventi relazionali) e altrettante le tecniche e le tecnologie usate dai vari artisti.
Semplificare in questo articolo la mia visita alle varie sedi di Manifesta non è semplice: un cammino davvero ampio che mi ha offerto la possibilità di leggere e vivere attraverso l’arte la contemporaneità in modo indipendente e personale. Aggiungo anche che non è mia intenzione scrivere un testo critico su Manifesta, anche perché in rete trovate punti di vista eterogenei e approfondimenti di ogni tipo. Mi limiterò a raccontarvi quello che mi ha colpito.
Ho iniziato la mia visita a Manifesta partendo dalla ex casa editrice Gustavo Gili, edificio razionalista situato nel centro di Barcellona, dove sono presenti una serie di progetti d’archivio incentrati sul passato coloniale e le sue ripercussioni, come sui movimenti di controcultura durante l’ascesa e la caduta della dittatura franchista e sulle storie di rinnovamento dell’istruzione catalana. Questo spazio è una sorta di punto di snodo che collega i tre nuclei tematici. L’architettura razionalista di questa sede, molto bella e ben conservata, è particolarmente interessante, ogni installazione è curata in modo quasi ossessivo, non c’è nulla fuori posto: qui è stato allestito un laboratorio che espone le opere e le esperienze dei partecipanti, lo scopo è invitare i visitatori a interagire attivamente con i tre temi centrali.
Imagining Futures si sviluppa intorno al bacino del fiume Besòs, uno dei due fiumi che costeggiano Barcellona, una zona di circa 80 chilometri quadrati abitata da un milione di persone. I dintorni sono caratterizzati da una crescita urbana disordinata e da profonde disuguaglianze socioeconomiche, dai capannoni abbandonati e da un lungomare dal fascino urbano. Nonostante gli scioperi iniziali, costati la vita, nel 1973, di un operaio e la chiusura nel 2011 per accuse di pioggia nera e inquinamento, l’ex centrale termoelettrica è diventata nel corso della sua vita un monumento popolare dei lavoratori e, ancora di più, il simbolo del suo passato industriale. Questo territorio, oggi è considerato un’opportunità di rinascita: Le Tres Xemeneies (2), sono ora un gigantesco monumento alla post-contemporaneità, un residuo dell’era industriale che sgomita per visibilità con le ciminiere religiose moderniste della Sagrada Famiglia e che, insieme a quest’ultima, disegna lo skyline della città; non solo il simbolo dello scomodo passato industriale di Barcellona ma un’alleanza per il futuro in cui pratiche sostenibili e comunità locali si incontrano e confrontano.
Il percorso espositivo inizia dall’alto: l’installazione Prehension di Asad Raza, artista nordamericano, fa danzare lunghe tende bianche al soffio del vento di scirocco che penetra liberamente dalle finestre, un lavoro che ben dialoga con quello di Claire Fontaine, collettivo nato a Parigi nel 2004 il cui nome si ispira al ready-made più famoso di Marcel Duchamp e a una marca di quaderni francesi, e che ad oggi vive e lavora a Palermo. When women strike the world stops è composta da una scritta a LED che ci ricorda quanto oggi più che mai non esista una divisione tra privato e pubblico, tra dentro e fuori, tra vita quotidiana e dimensione politica e sociale del vivere collettivo: sebbene rappresentassero solo l’1% della forza lavoro de Le Tres Xemeneies, le donne sono una parte fondamentale di questa storia perché furono proprio quelle dei quartieri circostanti a fare pressioni contro la seconda centrale perché produceva inquinamento tossico – la storia di quest’architettura industriale inizia con la costruzione della prima centrale elettrica nel 1912; da allora, sono state costruite altre tre centrali che si sono sostituite l’una all’altra. La loro lotta portò alla costruzione della terza centrale, quella che ospita, appunto, Manifesta. È la generazione successiva di donne locali che denuncerà la fuliggine dei Tre Camini perché ricopriva le loro case, obbligando così i gestori ad aumentare l’altezza dei camini di una ventina di metri. La storia dei Tre Camini è indicativa di come le donne scioperano non solo per equi diritti personali e salariali ma anche per migliorare le condizioni di vita di tutti.
L’interno, con una sua complessità architettonica, stratificata in piani congiunti a scale e piloni di cemento, ospita, oltre a Claire Fontaine, altri venti artisti in dialogo con lo spazio: è allora appropriato il film di Dziga Vertov, The Eleventh Year, il primo di una trilogia che celebra la modernità dell’Unione Sovietica e che documenta la costruzione della centrale idroelettrica di Dnipro, distrutta durante la Seconda Guerra Mondiale e ricostruita in seguito. Così come le Tres Xemeneies, la centrale fu per il popolo ucraino l’inganno di un sogno politico, economico e sociale.
Ugo Schiavi con l’installazione Autotrophic Spectra, parte del progetto Grafted-Memory-System, ci mostra, all’interno di una serra-terrario, un ecosistema tecno-organico, composto da una vegetazione contaminata dagli scarichi della centrale e di altri impianti industriali di Sant Adrià de Besòs. Un lavoro interessante ma costretto dentro a una visione troppo personale e molto antropocentrica, questo imporre alla natura di fare quello che vuole l’artista comincia a starmi sui nervi: l’enfatizzazione del dramma ambientale, un intreccio audio e video realizzato con scansioni 3D di piante provenienti dal sito stesso, in cui sia le immagini che i suoni sono generati dalle piante stesse, mi risulta un poco pleonastico e artefatto. E noioso.
La pratica artistica di Maja Escher ha una dimensione collettiva e ibrida composta da disegni, oggetti trovati, pratiche collaborative e processi sul campo. I materiali che usa vanno dall’argilla alle canne, da corde a pietre, oppure verdure e altri elementi trovati o offerti durante il suo lavoro sul campo che spesso combina con enigmi, detti e canzoni. Una tensione palpabile tra spiritualità e scienza, magia e tecnologia e una pratica fatta di installazioni site-specific e progetti orientati alla ricerca. Attraverso le sue opere, coltiva e condivide una profonda osservazione degli ecosistemi e della conoscenza ancestrale connessa alla terra e ai suoi elementi primordiali. Maja Escher è nata e cresciuta vicino alla diga di Santa Clara, nel sud-ovest dell’Alentejo, una regione del Portogallo densamente popolata da monocolture di eucalipti. La regione ha una forte presenza di serre e agricoltura intensiva, soprattutto nel Parco naturale del sud-ovest, irrigato appunto dalla diga di Santa Clara. Negli ultimi anni, il livello dell’acqua nella diga è sceso drasticamente, così come l’acqua del pozzo e del foro di trivellazione sul suo terreno. La consapevolezza e la crescente preoccupazione per la scarsità di risorse idriche e il conseguente rischio di desertificazione l’hanno portata ad avviare un progetto di ricerca su acqua e pioggia, fatto di saggezza popolare e conoscenza scientifica.
A questo punto ve lo posso anche dire, son venuta fin qua, a Barcellona, perché in questa edizione di Manifesta ci sono alcuni artisti che mi piacciono molto. Una di queste è Diana Scherer, artista tedesca, che vive e lavora ad Amsterdam. Il suo percorso di ricerca si ispira dalle teorie di Charles Darwin ed è coadiuvato da biologi ed ecologi. Un intreccio di competenze che mi piace molto, quel sapere rizomatico e trasversale che arricchisce ogni cosa. È un lavoro molto interessante perché fatto di processi dove le radici delle piante che coltiva generano schemi intricati e tessuti, il suo operato è controllarne la crescita. Attraverso dei template sotterranei progetta percorsi ai quali le radici si adattano; la regolazione della densità dei semi piantati e la differenziazione della pianta utilizzata servono ad ottenere risultati sempre diversi. Le decorazioni che ne risultano fanno parte esclusivamente del mondo vegetale, strutture molecolari che ricordano i motivi arabeschi e gli ornamenti gotici. Diana Scherer tesse sì pazientemente ma è la ricerca il suo telaio; un percorso lungo e, soprattutto, condiviso dove la collaborazione con il suo partner di processo, la natura stessa, è rispettosa di tempi e modi.
Proprio per questo estremo rispetto che quest’artista ha nei confronti dei materiali e dei processi mi ha indispettito parecchio la cacofonia di suoni che imperversava all’interno della sede espositiva delle tre ciminiere. Forse, nel tempo, ho sviluppato una certa sensibilità al rumore, una sorta di misofonia (3) verso i suoni usati dai videoartisti, suoni certamente comuni all’interno di una biennale d’arte ma che, nel mio caso, attivano in risposta una serie di reazioni emotive intense. Di fastidio. Le soluzioni ci sono, basterebbe considerarle e applicarle: le cuffie, oppure una stanza insonorizzata.
Sicuramente insonorizzato da assordanti suoni umani artificiali è l’esterno della ex centrale, uno spiazzo desertico affacciato sul mare (chiamato anche la spiaggia di Cernobyl, con allusione all’inquinamento dei terreni circostanti la centrale), dove trovo il risultato del laboratorio di uncinetto organizzato dal Collettivo Choi+Shine’s nei mesi di giugno e luglio per il progetto Urchins, un’installazione, ispirata allo scheletro di un riccio di mare, che vuole omaggiare sia il patrimonio tessile che quello ittico della città. Peccato che in questi ricci iperdecorati molto belli che giocano con gli agenti atmosferici, luci e ombre e suoni del Mediterraneo, non si potesse entrare: alla struttura, composta da un dentro e un fuori, non sono potuta accedere.
Ma vado oltre. Altro simbolo di questa biennale è il carcere franchista di Mataró, progettato da Elies Rogent nel 1863 e rimasto in uso fino al 1967, come primo esempio spagnolo di struttura panottica (4), oggi sede del centro culturale M/A/C. Il carcere di Mataró non fu solo una rivoluzione nell’architettura penitenziaria ma, durante il regime franchista, un luogo di detenzione per molti prigionieri politici. Il collegamento tra architettura industriale e penitenziaria è voluto, ci parla di una Spagna in trasformazione, dove le rovine del passato convivono con nuove visioni di giustizia sociale e inclusività.
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«Volevo riunire una serie di opere d’arte in grado di innescare un dialogo complesso, spesso inaspettato, che non avessero tra loro legami di influenza, contenuto o stile. Ed è così che ho iniziato immaginare la mostra come un organismo vivente su larga scala che segue la propria logica libidinosa, una macchina desiderante.»
Eva Fabregas
Il carcere di Matarò, segnato dal tempo e dai fantasmi dei suoi abitanti, è disseminato di corpi flaccidi, opera dell’artista catalana Eva Fabregas. Sono palloncini in latex pieni d’aria, ricoperti di resina e trattati come innesti architettonici: promiscue cellule-uovo posizionate tra corridoi, stanze e anticamere e lasciate al loro destino, sculture che invitano a rileggere l’architettura delle stanze come un unico spazio cresciuto organicamente. Sono oggetti morbidi e corporei, ludici e odorosi, corpi caratteristici del lavoro di quest’artista, che penetrano e si diffondono dai lati, dal soffitto e attraverso le travi e le finestre, e abitano un ambiente organico-tecnico. I confini tra i mondi generati tecnicamente, umani e non umani, si confondono. Nelle sue sculture l’aria diventa materia tangibile che crea volumi e forme capaci di cambiare la nostra percezione dello spazio. Sono volumi biomorfi di una morbida tavolozza di colori pastello che si aggrovigliano l’uno con l’altro, alludendo a processi e ritmi biologici legati alla digestione, all’incubazione e alla metamorfosi: un entrare dentro se stessi. Guardarle scatena una duplicità di emozioni: minacciose o stimolanti, innocenti o perverse. Sono accumuli, a tratti in scala monumentale, di sculture gonfiabili, che rappresentano una crescita organica incontrollabile, un intreccio simbiotico tra corpi, forme, materiali e colori che provengono dai mondi fantastici delle storie per bambini e della fantascienza. Come si fa a non amarli.
A Matarò, una vera sorpresa, per me, è stato il lavoro meticoloso di un artista catalano, Domènec, nato nel 1962 proprio a Mataró. Anche il suo lavoro è fatto di processi, in questo caso concettuali e di riflessione; il risultato è un corpus di opere scultoree e fotografiche, installazioni e interventi nello spazio pubblico che considerano il progetto architettonico come una delle costruzioni immaginarie più produttive e complesse della tradizione moderna, una profonda l’indagine sul concetto di campo (di calcio, ma anche di concentramento). Un attento lavoro che si basa in gran parte su ricerche antropologiche e narrazioni provenienti da diversi contesti locali; per questo utilizza archivi fotografici, video e installazioni per avviare un dialogo su come questi progetti non siano riusciti a soddisfare i bisogni sociali e umani di base. Domènec, per Manifesta, eleva il campo di detenzione a modello di riferimento dell’architettura europea del ventesimo secolo. L’artista declina la sua ricerca in una serie di casi studio europei – tra questi anche Lampedusa – corredati da piante e descrizioni che rivestono, molto elegantemente, i muri della prigione.
I territori del Vallés, compresi tra la Sierra di Collserola e il parco naturale del Monserrat – Granollers, Sabadell, Terrassa e San Cugat del Vallés – sono stati i più complessi da raggiungere. Le sedi di questa sezione sono tutte ospitate all’interno di piccoli gioielli del passato: il gruppo medievale ecclesiastico di Egara, a Terrassa o la Porxada di Granollers, un mercato rinascimentale del grano, bombardato durante la Guerra Civile spagnola da un’incursione aerea italiana.
Cure and Care racconta quanto possa essere terapeutico coltivare un rapporto armonioso con noi stessi, con gli altri e con l’ambiente. Ergo, di nuovo: il potere della cultura. Al centro di questa sezione si trova la Collserola, un’area naturale che, oltre a promuovere la biodiversità, funge da polmone verde per l’intera regione; la sua forza vitale è arricchita dalla presenza storica del Monastero di Sant Cugat, antica abbazia benedettina del IX secolo. Al primo piano, l’installazione della catalana Mónica Rikic descrive perfettamente il senso del tema di Cure and Care: una riflessione para-scientifica intorno alla sperimentazione robotica, pensata per supplire alle crescenti necessità quotidiane di una popolazione in esponenziale invecchiamento. Voto 110 e Lode.
Nel chiostro sono ospitate alcune opere molto belle; l’artista e astronoma Fanja Bouts con A Largely Distorted yet Surprisingly Ordered Map of Regular Irregularities: A Dense Description of The Present Day History of The Future, racconta, con un arazzo a doppia tela di lana e cotone, la capacità ancestrale del Big Bang di creare il mondo. La rappresentazione cosmogonica inizia dal centro di una stella a sei punte, simbolo di equilibrio magico dell’universo, per poi svilupparsi verso l’esterno in sistemi che collassano confusamente sugli effetti provocati dal mondo capitalistico.
Félix Blume, a Granollers, installa 500 piccoli trasmettitori appesi al soffitto dell’antico mercato all’aperto, che emettono costantemente il ronzio di 500 api che, ascoltate nell’insieme, ricordano il rumore terrificante dell’avvicinarsi degli aerei nemici. La guerra e la conservazione delle specie si intrecciano in un unico spazio di riflessione. Riflessioni, ahimè, molto attuali.
Nel bellissimo complesso religioso di Égara, a Terrassa, mi incanta il gruppo scultoreo in sapone verde della sudafricana Buhlebezwe Siwani, magistralmente inserito nel contesto spirituale del tempio funerario di San Miquel. Nel museo vicino, è molto appropriato il dialogo fra la pala d’altare di Lluís Borrasá, maestro della pittura gotica catalana, e il contemporaneo arazzo in tessuto del malese Marcos Kueh, artista tessile con un background in graphic design e pubblicità. La sua identità malese e il posto che quest’ultima ha nei discorsi occidentali ha influenzato il suo lavoro: incorpora le leggende contemporanee del suo paese direttamente nei tessuti proprio come i suoi antenati del Borneo facevano con i loro sogni e leggende, prima dell’arrivo dall’Occidente degli alfabeti scritti. Molti dei suoi progetti esplorano la percezione che l’Occidente ha del suo paese, dalle descrizioni coloniali nei musei antropologici di tutto il mondo ai testi di marketing nelle pubblicità turistiche; un confronto continuo tra queste rappresentazioni e le sue esperienze quotidiane in una piccola città del Borneo.
Altra giornata, altri chilometri. Lungo la foce del Delta del Llobregat, che, con la sua grande diversità di flora e fauna, le sue pinete, i canneti, le spiagge e gli stagni litoranei, rappresenta la massima compromissione dell’habitat e delle aree verdi provocata dall’espansione del porto, dell’aeroporto di Barcellona-El Prat e di altre infrastrutture, troviamo Casa Gomis (5), nota anche come La Ricarda, dal nome della laguna accanto alla quale sorge, sede principale del tema Balancing Conflicts, dedicato al tema dello sviluppo e della conservazione.
Casa Gomis, dichiarata bene di interesse culturale nel 2021, è un’elegante villa che sorge al limitare dell’aeroporto del Prat ed è stata progettata da Antoni Bonet i Castellana tra il 1949 e il 1963, seguendo i principi dell’architettura razionalista, con una visione ecologica dello spazio, una struttura formata da moduli indipendenti in mattoni e vetro, collegati tra loro a formare un sistema flessibile e adattabile all’ambiente circostante. Un processo di progettazione piuttosto lungo, condizionato dall’esilio argentino dell’architetto a causa della Guerra Civile. Al suo interno, nei vari ambienti che ospitano arredi progettati da Le Corbusier, Mies van der Rohe e Eileen Gray, sono dislocate le opere di ventidue artisti, meditate con grande attenzione – forse troppa – per integrarsi finemente nella memoria del luogo, quasi fossero state lì da sempre, come i Vasi-Farfalla e Cani (Bruno e Tre) di Chiara Camoni, artista italiana presente in più sedi, la cui pratica artistica comprende disegno, stampe botaniche, video, scultura, con particolare attenzione alla ceramica. Il lavoro organico di Chiara Camoni recentemente l’ho visto a Milano, quest’estate, all’Hangar Bicocca; la sua mostra personale Chiamare a raduno. Sorelle. Falene e fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentesse presentava una serie di oggetti di uso quotidiano prelevati da un universo domestico, materiali organici come erbe, bacche e fiori, ma anche diversi tipi di argilla e ceneri.
Balancing Conflicts è sicuramente una sezione, per me, molto interessante, vivace argomento di discussione sempre presente nei miei corsi: come molte altre metropoli nel mondo, anche Barcellona si trova a dover bilanciare il desiderio di crescita con l’urgente necessità di proteggere le sue risorse naturali. Tutto il Delta del Llobregat rappresenta il simbolo di questa sfida, avendo progressivamente ceduto terreno all’espansione urbana nel corso dei secoli.
In chiusura di questa lunga e personale analisi vi segnalo le ultime due artiste: Can Trinxet, ex fabbrica tessile occupata per la prima volta nel 1890 e divenuta in seguito il più grande complesso industriale de L’Hospitalet de Llobregat, ospita l’installazione di un’unica artista, l’italo-senegalese Binta Diaw, un’azione rizomatica composta da capelli artificiali acconciati in lunghe trecce ed elementi naturali, in entrambi i casi elementi che ospitano riflessioni geografiche, storiche e culturali e che riflettono ed evocano, dal personale al collettivo, temi globali come il colonialismo, la diaspora, la migrazione e il panafricanismo.
L’olandese Tanja Smeets, con le sue forme organiche che invadono lo spazio, la trovo in due sedi: a Egara e a Sabadell. È un meticoloso lavoro di crescita o espansione naturale il suo articolato processo, che esplora il confine tra arte e l’architettura ed è fatto con materiali comuni e industriali – plastica, fil di ferro, tubi, fili, feltro e altri oggetti d’uso quotidiano – assemblati in strutture complesse. Uno degli aspetti centrali del lavoro di questa artista è l’interazione tra i corpi, compreso quello umano, e lo spazio circostante. Le sue sculture, spesso composte da moduli ripetitivi, sembrano crescere e fondersi spontaneamente sugli edifici o nelle stanze; sono strutture che evocano la natura, i riferimenti sono a organismi, funghi, piante e forme cellulari, e ti invitano a immergere lo sguardo e interagire con loro. Un percorso artistico affascinante che è anche una riflessione sulla relazione tra natura e cultura, tra crescita naturale e artificiale, e tra ordine e caos. A Vapor Buxeda Vell, a Sabadell, antica fabbrica tessile che funzionava a vapore, mimetizza le sue infiorescenze artificiali, fatte di materiali industriali di scarto (plastica, feltro o tessuto), tra caldaie e macchinari tessili.
In sintesi, se di sintesi si può parlare, son queste le opere e gli artisti che mi hanno colpito; sicuramente, uno dei risultati più interessanti è stata una vera e propria indagine sulle periferie che riguarda l’urgenza di ripensare il ruolo del turismo come diffusione culturale invece di semplice consumo di massa. Anche il rapporto fra centro e periferie, la convivenza interrazziale, la complessa circolazione delle persone e la diffusione capillare della cultura come le reiterate questioni ambientali – cementificazione delle aree naturali, biodiversità che va a farsi benedire, sopravvivenza delle specie autoctone e, naturalmente, crisi climatica – son stati argomenti piuttosto convincenti e ben articolati. Insomma, forse avete capito cosa mi ha davvero affascinato di questa edizione di Manifesta: la sostenibilità dello sviluppo urbano, la convivenza sociale e l’importanza della cultura come come strumento per ridisegnare il futuro.
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(1) Su Manifesta: nata a Rotterdam, Manifesta è una rassegna a cadenza biennale che si propone al pubblico come “piattaforma paneuropea per l’arte visiva contemporanea”, favorendo l’integrazione culturale a livello europeo. La prima edizione del 1996 è una Manifesta che rifletteva un periodo storico in cui le trasformazioni economiche del post-guerra fredda stavano ridefinendo l’intera realtà europea e il modo in cui gli artisti potevano leggerla e rappresentarla tramite una narrazione più sperimentale, accompagnata dalla necessità di adattare il linguaggio artistico alle urgenze politiche e sociali. L’idea che la voce dell’arte potesse liberarsi in mezzo ai conflitti, alle crisi finanziarie, alle questioni di genere, trovando non solo contenuti ma anche azioni concrete sta alla base di tutto il progetto. La decisione di svolgersi ogni due anni in una città diversa non è casuale: l’obiettivo è confezionare una biennale capace di tradurre e rispecchiare le specificità di ciascun luogo, considerato periferico dal mondo dell’arte e della cultura contemporanea, superando i tradizionali confini geografici e culturali e rendendo l’arte contemporanea accessibile e rilevante in una varietà di contesti. Manifesta è un progetto condiviso che innesca processi e alimenta non solo il pensiero critico ma anche l’immaginazione e i sogni. Il suo profondo legame con i luoghi che la ospitano è il suo punto di forza: non è l’evento a scegliere le città, ma sono le città stesse, attraverso sindaci e operatori culturali, a richiederla con obiettivi precisi.
(2) In origine Le Tres Xemeneies (Le Tre Ciminiere), la Sagrada Famiglia dei lavoratori, edificio industriale cresciuto sulla costa tra Barcellona, Sant Adrià de Besòs e Badalona ed edificata negli anni ’70, era una centrale termoelettrica situata sulla riva sinistra del fiume Besòs. Aperta per la prima volta al pubblico proprio in occasione di Manifesta, ospita una serie di interventi artistici nella sala delle turbine e nelle aree esterne.
(3) Il termine “misofonia” deriva dal greco “miso” (odio) e “fonia” (suono) ed è una condizione di ipersensibilità ai rumori che provoca una reazione avversa verso specifici suoni. Le persone affette da misofonia sperimentano spesso disgusto o ansia in risposta a determinati suoni.
(4) Un panopticon è un modello architettonico che consentiva a un singolo sorvegliante di monitorare tutti i detenuti senza che questi sapessero di essere osservati. Nella mitologia greca Panoptes, l’altro suo nome è Argo, è il personaggio dai cento occhi, colui che vede tutto. Lo schema del panopticon di Jeremy Bentham, analizzato da Michel Foucault in Sorvegliare e Punire, negli ultimi decenni si è trasferito sui muri delle nostre città nelle moltitudini di videocamere di sorveglianza che ogni giorno ci controllano. Il prossimo passo, in molte zone di guerra del mondo già triste realtà, sarà il panopticon volante, flotte di droni dai molti occhi armati. Lo sguardo, a differenza di quello del panopticon classico, allora sarà uno sguardo che uccide.
(5) Ricardo Gomis, il proprietario, è stato membro dei gruppi ADLAN (Amics de l’Art Nou) e CLUB49, collettivo di artisti e intellettuali formato, tra gli altri, da John Cage, Merce Cunningham, Antoni Tàpies, Joan Miró e Joan Brossa. Pensata come opera d’arte totale (arredi d’epoca, opere site specific e giardino incluso) è minacciata oggi dal continuo rombo dei jet: ne parte uno dietro l’altro.