«Sul tetto dell’isola non si sosta tra i corbezzoli e i mirti a contemplare un’«ampia e bella veduta qual può abbracciarsi con lo sguardo» – stando alla definizione di «panorama» da parte del dizionario Treccani –, o a scrutare uno spazio indefinito (la vista si perderebbe oltre i campi coltivati e gli arbusti selvatici che dal termine del bosco si collegano all’orlo degli strapiombi sul mare), o a osservare un territorio delimitato da confini geografici o amministrativi.
Non è neanche un «ambiente» quel che si osserva; questo, infatti, è nozione ecologica: secondo il dizionario Devoto Oli: «L’insieme delle condizioni fisico-chimiche e biologiche che permettono e favoriscono la vita degli esseri viventi», mosaico di ecosistemi cui partecipano piante, animali, microrganismi, aria, acqua e suolo coinvolti, lungo catene alimentari, in un comune e continuo flusso di energia e circolazione di materia. Dalla cima di una montagna, invece, la vista spazia nella lunga distanza, l’orizzonte si allontana e tutto ciò che è compreso tra il suo definirsi e l’osservatore è invece propriamente «paesaggio», insieme di caratteri fisici e tangibili di un’area, attività dell’uomo, significati o simboli impressi attraverso lo sguardo nella sua coscienza. Come afferma, con la Convenzione europea del paesaggio del 2000, il Consiglio d’Europa: il paesaggio «designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni».
La differenza semantica si svela seguendo i tornanti stretti e ripidi della strada sconnessa o i sentieri che salgono sulla montagna di Pantelleria. La natura si esibisce dal cielo al mare, dalla costa al piano e lungo il pendio, variabile nelle forme geologiche, nelle espressioni climatiche, nelle caldere vulcaniche pianeggianti e coltivate, lungo i pendii terrazzati, nella vegetazione, nella flora che la compone e nella fauna che ospita, nella macchia, i boschi, le praterie nude per la terra superficiale, la roccia affiorante e il vento salmastro. La storia è nelle tombe megalitiche, nelle rovine romane, nelle piccole architetture di segno arabo, nelle casermette dell’ultima guerra, nei muretti senza tempo, nei segni inevitabili e disordinati della contemporaneità. La lentezza del procedere, segnata dal ritmo imposto dal passo e dal fiato, trasforma lo spazio, l’ambiente, il panorama in paesaggio, prolunga e approfondisce l’attenzione. Alla natura e alla storia si unisce la contemplazione e, attraverso essa, i ricordi, la bellezza, l’emozione poetica. L’umano ha modo di confrontarsi con l’inumano per creare un paesaggio.
Le forme del paesaggio, il loro nascere dal mondo della natura, dal lavoro e dalla conoscenza dell’uomo si svelano salendo la montagna mentre l’orizzonte si amplia e lo sguardo si arricchisce della riflessione. Una delle ascensioni più importanti della storia, «in cerca di un punto di vista più alto, di un’unica occhiata» fu quella che compì Alexander von Humboldt nel 1802 sul Chimborazo, una montagna andina che raggiunge 6300 metri e che all’epoca era considerata la più alta del mondo. Non riuscì, carico di strumenti scientifici e afflitto dal mal di montagna, a raggiungere la vetta ma fatica, tempo, pericoli lo portarono a una visione della natura, «microcosmo in un sola pagina», che avrebbe cambiato la storia della scienza. Nei suoi appunti, accompagnati da disegni, e poi nei cinque volumi di Kosmos ai quali lavorò per più di due decenni, il geografo e naturalista tedesco intendeva dimostrare che
la natura è un insieme vivente […] le forze organiche lavorano senza sosta interagendo una con l’altra […] in questa grande catena di cause ed effetti non c’è un sol fatto che possa essere considerato isolatamente.
Humboldt riflettendo su quel viaggio ha avviato la cultura moderna a una visione della natura che solo molto più tardi (anni venti del xx secolo) sarebbe stata definita olistica. Con lui nasce la moderna concezione di paesaggio, «totalità dei caratteri di un territorio» – seppure il termine e la definizione che gli è attribuita non compaia nei suoi scritti – che comprende natura, storia, conoscenza, in una somma che è maggiore delle parti.
A guidarlo era l’intento di
descrivere la natura in maniera tale da restituire il più possibile il piacere immediato della visione e al tempo stesso contribuire, sulla base dell’attuale stato della scienza, a una maggior comprensione dell’armonico nesso che governa l’agire delle forze naturali.
L’unità della natura è nelle forme geologiche, nelle rocce e nei suoli in cui si sono trasformate, nelle acque profonde e superficiali, nel clima che concorre a determinare caratteri fisici e scambi e flussi, nelle piante e negli animali, in tutte le forme viventi. A modificarla è poi intervenuto il lavoro degli uomini, nel tempo della storia e la comprensione che di essa ha chi lo abita, lo attraversa, chi in essa deposita, trova e condivide identità, memorie, emozioni, sentimenti, ispirazioni per espressioni artistiche. La cultura dell’uomo trasforma la natura, la vista diventa sguardo e con esso la definisce, nella diversità che distingue comunità e singoli individui, la percepisce e la contempla. La storia dell’uomo, il suo lavoro accumulatosi nei secoli e la cultura che lo sottende rendono la natura un’oggettiva costruzione umana. L’ambiente che diventa paesaggio, ha scritto il filosofo siciliano Rosario Assunto, «è natura promossa a cultura […] è quello in cui viviamo le nostre speranze e i nostri disinganni, le nostre gioie e le nostre pene». [pp.35-38]
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Giuseppe Barbera, Il giardino del Mediterraneo. Storie e paesaggi da Omero all’Antropocene, Il Saggiatore, 2021