AntropologiaArteTeresa Margolles - In the Air

Ciudad Juárez, in Messico, ovvero la Città del Male, è una delle più violente dell’intero pianeta, un’area della Terra percepita come la vergogna del Messico. Un luogo dove i crimini non sono né perseguiti, un posto dove l’impunità produce altra violenza, un luogo dove gli uomini sentono di essere superiori alle donne e dove le forze religiose hanno colpevolizzato la loro “aspirazione civile all’emancipazione”. Nel 2020 sono 3.723 le donne uccise in Messico nel 2020. Per le famiglie cercare giustizia è un inferno.

Nella zona desertica della Ciudad messicana, la lunga scia di stupri, mutilazioni, torture e massacri ha sicuramente una connotazione culturale, comportamentale e sociale che fa dire a Roberto Bolaño questa frase: «Come Ciudad Juárez, che è la nostra maledizione e il nostro specchio, lo specchio inquieto delle nostre frustrazioni e della nostra infame interpretazione della libertà e dei nostri desideri».

Teresa Margolles, nata nel 1963 a Culiacán, nel distretto di Sinaloa, prima di diventare artista ha studiato e lavorato come anatomopatologa. Ora vive a Città del Messico ma in passato ha lavorato in diversi obitori in tutto il Sudamerica incluso quello di Ciudad Juárez, la morgue dove un fiume incessante di corpi, perlopiù femminili, scorre attraverso i quattro giganteschi frigoriferi (capaci di contenere 120 salme ciascuno).

«Un obitorio per me è il termometro di una società. Quello che succede dentro a un obitorio è quello che succede fuori. Il modo in cui muore la gente mi mostra cosa sta succedendo in città.»

Tutta la sua opera è intrisa di tracce materiali di morte: l’acqua usata nei lavaggi dei cadaveri, il filo chirurgico impiegato per ricucire i corpi, spesso usa i teli sporchi di sangue e plasma umano oppure i frammenti di parabrezza esplosi, le pareti crivellate di proiettili, come anche i veri annunci di persone scomparse o gli articoli di fatti di cronaca nera: tutto quello che appartiene al mondo delle morgue e alle scene del delitto e che di regola è tenuto nascosto alla coscienza pubblica. Elaborando la sua esperienza diretta, Teresa Margolles ha sviluppato tutta la sua ricerca artistica su due fronti: da una parte sabotare la narrativa, onnipresente nei media e nella mentalità messicana, che colpevolizza le vittime (qull’abusato “se la sono cercata” spesso sbandierato anche nella civile Europa); dall’altra rendere le conseguenze della violenza concrete e tangibili, traducendo l’orrore in un linguaggio fisico, universale. Lo fa usando una strada non scontata, portando il pubblico in contatto con la morte e il dolore tramite la sensibilità di chi sta osservando ed elaborando l’esperienza. Altri avrebbero usato un approccio più crudo: infliggere al pubblico una sequela di immagini di massacro, di corpi mutilati, di carne maciullata, con il risultato di produrre un interesse transitorio, poiché la nostra società è già bombardata di simili rappresentazioni, sempre più assuefatta u un tipo di immagine iperreale tanto da non distinguerla più dalla finzione.

Per ¿De qué otra cosa podríamos hablar? del 2009, ovvero l’opera premiata alla 53a Biennale di Venezia e anche quella che l’ha resa celebre, aveva cosparso il pavimento della sala con l’acqua usata per lavare i cadaveri all’obitorio di Juárez. Ai muri, grandi tele sembravano quadri astratti ma erano in realtà lenzuoli impregnati del sangue delle vittime. Fuori dal Padiglione Messicano, su un balcone che si affaccia sulla calle, era issata una bandiera del Messico, anch’essa insanguinata.  

¿De qué otra cosa podríamos hablar?, 2009

Nell’installazione ambientale In the Air, del 2003, Teresa Margolles usa i fluidi dei laboratori dell’obitorio di Città del Messico per descrivere la realtà violenta della città, una dichiarazione che usa un linguaggio giocoso ed effimero per rimarcare, anche tramite il flusso continuo tipico delle bolle soffiate, il numero sempre crescente di vittime che di solito ricevono poca o nessuna attenzione a causa della loro fragile posizione sociale. Le bolle che il pubblico osserva e tocca sono, appunto, prodotte da una macchina che utilizza una miscela a base di acqua saponata utilizzata per lavare i corpi delle vittime di omicidio a seguito delle loro autopsie. Le bolle di sapone che si riversano sugli spettatori sono il prodotto di un’acqua che reca tracce di brutalità politica e sociale: toccando la nostra pelle l’installazione produce un legame tra noi e questi anonimi cadaveri; e ogni bolla diventa il simbolo di una vita, un’anima fragile che si è persa nel vuoto.