ArteBotanicaCitazioni

Possiamo paragonare il sistema dell’arte più a un mondo di erbacce oppure a uno di coltivazioni intensive?

Secondo Emanuele Coccia, filosofo, autore de La vita delle piante. Una metafisica della mescolanza, Bologna Il Mulino (2018), la risposta è né all’uno né all’altro: il sistema dell’arte è una foresta, piena di tesori e di parti meno vitali come tutte le foreste, con tutta la biodiversità del caso, compresi gli eccessi.

Ma che cosa è un’erbaccia? Secondo il dizionario il termine è il peggiorativo di èrba e più precisamente significa erba infestante, di solito dannosa alla sopravvivenza delle altre erbe di un prato. È proprio solo così?

Ralph Waldo Emerson diceva che un’erbaccia è semplicemente una pianta le cui virtù non sono ancora state scoperte. Secondo John Ruskin un’erbaccia è una pianta che possiede la tendenza innata a finire nel posto sbagliato. Gilles Clément ne Il Giardino in movimento ci consiglia di prestare attenzione ai nostri giardini perché è proprio così, dai nostri giardini, pubblici e anche privati, che sorgono altri tipi di giardini, oasi naturali che sfuggono al controllo razionale dell’uomo. Le erbacce non esistono, le abbiamo inventate noi. Giardini in cui l’avvicendarsi delle stagioni e l’azione spontanea della natura sono gli unici veri giardinieri. Secondo Gilles Clèment, le specie vegetali presenti in questi luoghi, senza l’intervento dell’uomo, si incrociano e si espandono, «esse appaiono e scompaiono in luoghi imprevisti, in modo tale che i percorsi non sono quasi mai gli stessi e cambiano da un istante all’altro».

Le erbacce crescono ovunque, registrano le condizioni climatiche che calpestiamo: esposizione, umidità, terreno argilloso o sabbioso. Viaggiano: col treno, nel risvolto dei pantaloni, portate dal vento, con gli zoccoli degli animali, a rimorchio di altre nobili piante. Il tempo, quello atmosferico ma anche quello storico, non le ferma. Sono l’impossibilità d’arresto della vita, alcuni la chiamano Libertà, altri ne hanno paura. Falciare il prato significa tagliare la testa alle erbacce. Questo, secondo la regola ferrea delle piante infestanti, significa che diamo impulso a tutte quelle specie che adorano essere decapitate e che hanno sviluppato un fogliame che cresce al livello del terreno. E così, in tutti i mesi dell’anno, i prati sono disseminati di folti agglomerati di rosette di piantaggine e denti di leone.

La Grande zolla è una piccola porzione di terra ingrandita nel foglio che misura 31×40 cm. È il 1503 e Albrecht Dürer sceglie di dipingere gli elementi forse più confusamente ignorati, inutili, spesso temuti e messi al bando perché usati da farmacisti e streghe. La Grande zolla apre di fatto le nuove frontiere dell’illustrazione botanica pensionando le immagini stilizzate degli erbari medioevali. Un angolo qualsiasi di un qualunque campo abbandonato dei primi anni del nostro secolo o di qualsiasi epoca diventa un elemento di scoperta dell’ecologia da parte della pittura. La precisione del pennello in questo caso anticipa la macro fotografia; e, capovolgendo le prospettive, rivoluziona il soggetto che rappresenta: nel dipinto appare solo una piccola, banale zolla di terra, con i soffioni del tarassaco, i fili d’erba della fienarola dei prati che si trasformano in foresta e, al centro della scena, una plantago. Una pianta plebea, che nessuno fino ad allora reputava degna di un ritratto ufficiale. All’epoca, la piantaggine la conoscevano tutti: ai tempi dei romani la chiamavano l’orma del legionario perché, viaggiando con il foraggio, aveva via via colonizzato nuove terre, ben oltre il Mediterraneo, accompagnando le avanzate della cavalleria imperiale. Ma, soprattutto, la plantago era nota per la sua millenaria presenza nelle farmacopee contadine. La foglia fresca viene applicata su punture e ferite. La popolarità del rimedio, usato in tutta Europa, era attestata anche in Italia dal gran numero dei suoi appellativi dialettali: Cinque nervi, Capo di serpe, Orecchio d’asino, Lingua di cane… In Toscana viene chiamata l’Erba dei cento nomi.

I semi della piantaggine arrivano in America con i coloni, che la coltivano nei loro orti sulla costa; ben presto però, la pianta evade. I suoi semi si attaccano alle scarpe e ai pantaloni degli Europei e alle ruote dei loro carri. E così, verdi macchie di piantaggine spuntano ovunque essi vadano. L’impronta dell’uomo bianco: così la chiamano gli Indiani, che la vedono comparire dappertutto assieme agli invasori. I Greci e i Romani la conoscevano e ne apprezzavano le proprietà al punto che Temisone di Laodicea, fondatore della scuola metodica di medicina nel I secolo a.C., le dedicò un trattato apposito: De plantagine. Pochi secoli dopo (siamo tra il terzo e il quinto d.C.), i semi di piantaggine compaiono negli stomaci delle cosiddette mummie di palude, antichi uomini dell’Europa del nord i cui corpi si sono conservati fino ad oggi, mummificati naturalmente grazie all’ambiente asfittico delle torbiere. In tempi più recenti veniva coltivata nei giardini dei monasteri e fa la sua comparsa, nonostante il suo aspetto umile e dimesso, anche nell’arte e nella letteratura. Alla fine del secolo, invece, entra nei teatri grazie al genio di Shakespeare, che le dedica qualche verso in Romeo e Giulietta, come rimedio per i cuori spezzati.

È una pianta resistente e caparbia, che tollera bene il calpestio, così come i terreni inquinati, e prospera anche lungo le strade cittadine. Regna sovrana nel mio giardino condominiale. Però, questa sua tolleranza fa sì che possa essere impiegata anche per risanare l’ambiente. Non solo tollera gli inquinanti, ma è anche in grado di accumularne alcuni, come i metalli pesanti, eliminandoli dal suolo. Sembra quasi che sia la natura stessa a farla crescere in luoghi che necessitano di un risanamento. E se la sua capacità di ripulire il suolo non bastasse, di recente si sono studiate le sue applicazioni per eliminare i coloranti dalle acque di scarico. Le industrie tessili, della gomma, del cuoio, della carta, della plastica, dei cosmetici (ecc.) ogni anno rilasciano nella biosfera 1-2 milioni di kilogrammi di coloranti. Sono, questi, molecole sintetiche dalla complessa struttura aromatica resistenti alla degradazione biologica, stabili alla luce, al calore e all’ossidazione. Come eliminarli dalle acque in cui sono confluiti? Il metodo più utilizzato è quello della coagulazione-flocculazione. Le mucillagini della Piantaggine fungono da agente coagulante in grado di riunire le molecole di colorante disperse in acqua perché possano poi essere rimosse con mezzi fisici. Il genere Plantago (famiglia Plantaginaceae) comprende circa 275 specie annuali e perenni distribuite in tutto il mondo. Tre le specie più utilizzate: Plantago major L., Plantago lanceolata L. e Plantago asiatica L. Sono piante erbacee con foglie ellittiche che formano una rosetta basale dal cui centro si diparte l’infiorescenza, cilindrica, a spiga, con numerosi semi ermafroditi le cui grosse antere sporgono dalla corolla. La fioritura inizia in primavera e si protrae fino a settembre, e il polline dei suoi fiori può essere causa di allergie, spesso correlate a quelle delle Graminacee. Riniti, asma, congiuntiviti: un piccolo scotto che ad alcuni tocca pagare per una pianta altrimenti utilissima. Il frutto è una capsula ovale che contiene piccoli semi (ce ne sono quasi 20.000 per scapo fiorale). E sono proprio questi semi la chiave del suo successo, ciò che le ha permesso di espandersi in ogni dove. Il rivestimento del seme presenta delle cellule particolari in grado di produrre mucillagini. La loro parete cellulare è ricca di pectine, che rigonfiano quando piove portando il seme ad aumentare di dimensione fino a 4 volte. Le mucillagini hanno una triplice funzione: forniscono una riserva d’acqua per l’embrione; proteggono il seme quando viene ingerito dagli uccelli e ne favoriscono l’espulsione; conferiscono al seme proprietà adesive, che gli permettono di attaccarsi alle zampe degli animali di passaggio. Gli uccelli sono ghiotti dei suoi semi, e la pianta ha sviluppato con essi un rapporto simbiotico: cibo in cambio di un aiuto nella germinazione. Se la germinabilità dei semi è normalmente del 56%, quando questi passano attraverso l’apparato digerente degli uccelli, diventa del 100%. Si parla, in questo caso, di diffusione endozoocora. Ma è l’altra diffusione, quella epizoocora, che si è resa protagonista di una grande invasione. E, come per la zanzara tigre, il vettore è l’Homo sapiens. 

Albrecht_Dürer_-_The_Large_Piece_of_Turf,_1503_-_Google_Art_Project

Albrecht Dürer, La Grande Zolla, 1503 – Acquarello, 41×31,5 cm – Albertina, Vienna

 

Giovanni Bellini, Pietà Martinengo, 1505 ca – Gallerie dell’Accademia, Venezia

 

Tony Matelli – Abandoned weed, 2005

Tony Matelli, Abandoned weed, 2005 – Bronzo dipinto, 19x10x14 cm