«Questi oggetti hanno subìto l’influenza di campi e forze di cui normalmente non abbiamo percezione perché la capacità percettiva degli esseri umani è molto limitata. È un po’ il fil rouge di tutte le opere: come questi fenomeni influenzano le nostre vite senza che noi ne abbiamo reale sensibilità. Come la forza di gravità, una forza che determina ogni momento del nostro essere, ma di cui non abbiamo una vera e propria percezione».
Carsten Nicolai
––––––––––
Il Ventesimo Secolo, e la sua storia dell’arte, è stato plasmato da quella riproducibilità tecnica che Walter Benjamin descrive già nel 1936, in quel suo saggio illuminante che è L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, serie di riflessioni sul rapporto tra arte e nuove tecnologie, in quel neonato contesto frutto proprio di quelle radicali trasformazioni prodotte dall’invenzione e dalla diffusione di nuovi dispositivi tecnologici come la fotografia e il cinema e dove la tesi centrale di tutta l’opera si concentra sull’idea di decadenza dell’aura e, di conseguenza, sul destino dell’arte. (*)
L’avvento del digitale nella più recente epoca contemporanea ha portato quella riproducibilità alle sue estreme conseguenze.
Questo lato del secolo che abbiamo alle spalle mi ha sempre affascinato e, probabilmente, proprio per questo mi ha sempre affascinato il lavoro di Carsten Nicolai, artista che da sempre si confronta con molte tecniche e molti materiali, che usa costantemente nuove tecnologie dove il rapporto tra suono, design, scienza, tecnica e tecnologia, e ovviamente arte, è presente in tutti i suoi lavori. Un artista influenzato dal paesaggio sociale in cui è nato, una provincia fatta da una filiera di fabbriche tessili dove i macchinari in perenne funzione erano lo sfondo – visivo e sonoro – di un territorio che, a seguito della caduta del Muro di Berlino, sperimentava su molti fronti e in altrettanti ambiti.
Ho visto la mostra di Carsten Nicolai, Strahlen/Raggi, una domenica di febbraio, a Modena. Promossa da FMAV e curata da Lorenzo Respi, consiste in una serie di opere recenti e un bellissimo progetto inedito. Il titolo, come spiega il curatore, allude non solo alle leggi fisiche di propagazione delle particelle luminose e delle onde sonore, ma in termini poetici anche all’energia emanata dall’oggetto-opera d’arte concepito dal genio creativo umano. Esplorando gli ambiti di transizione tra musica, arte e scienza, Noto intende superare le barriere percettive e sensoriali dell’uomo cercando di sintetizzare i fenomeni fisici, come il suono e la luce, in un’unica esperienza immersiva e plurisensoriale. Il risultato estetico dell’intervento dell’artista su questi eventi fisici prende forma attraverso installazioni site specific e dipinti nei quali un complesso codice di segni acustici e visivi mette in stretta relazione il corpo umano e lo spazio circostante, cercando di annullarne la distanza fisica attraverso l’interazione sensoriale.
La Palazzina dei Giardini, dove la mostra è ospitata, ha accolto la sottoscritta con un’installazione sonora – Transmitter/Receiver – fatta di ampolle trasparenti, dischi specchianti e cavi che visualizza, tramite un contatore Geiger posizionato all’esterno della Palazzina, la presenza di particelle radioattive terrestri ed extraterrestri: ogni volta che il contatore rileva una particella, l’installazione-macchina emette un impulso elettrico e contemporaneamente luminoso che determina l’intensità del rumore udibile. Una sorta di codice Morse, dove la sequenza dei segnali è però assolutamente casuale.
Carsten Nicolai è uno di quegli artisti che manipola e genera, con grande padronanza, suoni al di fuori di un contesto prevalentemente musicale. Certo, in arte non è il primo – basti ricordare il nostro Luigi Russolo con i suoi intonarumori – e nemmeno l’unico a farlo – i primi nomi da citare sono quelli di John Cage e più di un artista Fluxus. Ma Nicolai – in molti contesti usando il suo alter ego, Alva Noto – manomette gli strumenti a sua disposizione annullando la loro funzione originaria in modo da generare, spesso attraverso l’errore, le stesse abilità, rendendole però imprevedibili e assolutamente autonome rispetto all’artista stesso: infatti, nelle ultime produzioni ha ridotto la sua stessa interazione con i dispositivi che assembla permettendo che sia il caso a produrre il discorso artistico.
Esattamente quello che fa Transmitter/Receiver perché il traffico di impulsi – non raccolto, non documentato e nemmeno conservato – esiste solo nel qui e ora.
In mostra è presente anche la serie di dipinti Formula, realizzata tra il 2016 e il 2018, dove pattern complessi di linee sottili, modulate in archi, sinusoidi e simmetrie, emergono dalle tele bianche o nere. Ogni pattern è la traduzione grafica di formule ed equazioni matematiche, cifra stilistica questa che si trova in molti dei lavori di questo artista, ad indicare quanto leggi armoniche di questo tipo si ritrovino inscritte in molti fenomeni naturali come, ad esempio, l’increspatura della superficie dell’acqua di Reflektor distortion.
Ai lati architettonici della Palazzina, proprio Reflektor distortion è composta dalla luce di sedici neon verticali che si rispecchiano nell’acqua di una vasca circolare rotante; l’unica differenza tra le due installazioni, una a destra della Palazzina e l’altra a sinistra, è il colore della parete e del contenitore che si controbilanciano da un lato all’altro della mostra: bianco e nero, nero e bianco, positivo e negativo e viceversa. La forza centrifuga determinata dalla rotazione a velocità variabile della vasca da l’impressione che il livello dell’acqua si alzi e si abbassi, contemporaneamente le onde sonore prodotte da altoparlanti a bassa frequenza inducono una serie di increspature sulla superficie del liquido che visualizzano i riflessi in pattern sempre diversi: Reflektor distortion diventa così un dispositivo per la contemplazione di raggi cangianti di luce.
Le opere inedite V.I.R.U.S. for Ryuichi S. I e V.I.R.U.S. for Ryuichi S. II, invece, sono dedicate a Ryuichi Sakamoto, musicista e compositore scomparso lo scorso marzo: due tele astratte in gesso, vernice vinilica e filo di seta su legno, strutture visive che rimandano al design del cofanetto della riedizione, lavoro prodotto da entrambi nel 2002, dei cinque dischi della serie V.I.R.U.S.
L’opera che però mi ha trascinato fuori casa, messo in macchina e portata a Modena è sicuramente Ray Collector, progetto sviluppato durante il lockdown causato dalla recente pandemia di Covid19 e presentato al pubblico per la prima volta proprio in questa mostra, un processo di registrazione che interessa tutto il pianeta: nel febbraio del 2022, Nicolai ha spedito per posta dieci pacchi da Berlino a dieci località su isole remote disperse nel mondo. Tutti i pacchi erano destinati al Signor Nemo, in onore del ben più famoso Capitano Nemo, lo stesso di quelle Ventimila leghe sotto i mari che molti di noi hanno letto da bambini, e contenevano una pellicola bianco e nero Ilford Delta 3200 iso 1000, una pellicola negativa a colori Kodak iso 800, una cassetta a nastro magnetico non registrata e un messaggio dell’artista. Essendo il destinatario un’identità inesistente, il pacco, come da istruzioni, è stato rispedito al mittente, dopo una serie di viaggi di decine di migliaia di chilometri dove il nastro e le pellicole contenuti in ciascun pacco hanno registrato, attraverso le superfici sensibili, le tracce lasciate dalle onde e dalle radiazioni elettromagnetiche a cui sono stati esposti (come i raggi x degli scanner degli aeroporti o i campi magnetici del pianeta stesso durante il volo). Queste tracce, diventate visibili e udibili, sono state convertite da Nicolai in suoni. In una delle sale della mostra sono esposti i dieci pacchi, insieme a una pubblicazione che documenta l’intera operazione e a un vinile a doppia facciata, a tiratura limitata, con tutti i suoni registrati. Meravigliosi.
––––––––––
(*)
«Il film offre l’esempio di una forma d’arte il cui carattere è per la prima volta integralmente determinato dalla sua riproducibilità. Attraverso il film è divenuta decisiva una qualità che i Greci non avrebbero ammesso che in ultimo luogo: la perfettibilità dell’opera d’arte. Il film è dunque l’opera d’arte più perfettibile, e questa perfettibilità deriva direttamente dalla sua rinuncia radicale a ogni valore d’eternità».
Walter Benjamin
––––––––––
L’immagine in evidenza è la fotografia delle due opere inedite V.I.R.U.S. for Ryuichi S. I e V.I.R.U.S. for Ryuichi S. II