«Per chi sa osservare, tutto è arte. La natura, la città, l’uomo, il paesaggio, l’atmosfera, ciò che chiamiamo “umore”, e, infine e soprattutto, la luce. Peraltro, tutti conoscono l’arte degli artisti, quella firmata.
Pittori, scultori, musicisti, scrittori, cineasti, danzatori ecc. sono chiamati in causa sulla questione dell’arte, a proposito della quale, come si sa, c’è sempre molto da dire. Esiste tuttavia un luogo indefinito nel quale si incrociano il dominio elementare della natura – le contingenze – e il territorio marcato dall’uomo. Questo terreno d’incontro produce figure che sono al tempo stesso lontane dall’arte e vicine, a seconda delle definizioni che se ne danno. Per quanto mi riguarda, considero come arte involontaria il felice risultato di una combinazione imprevista di situazioni o di oggetti organizzati conformemente alle regole d’armonia dettate dal caso.»
Gilles Clément, Breve trattato sull’arte involontaria, Quolibet 2019
I movimenti artistici nascono spesso in modo casuale, non preventivato, adesso diremmo per diffusione virale, da una visione particolare e spesso condivisa.
Gilles Clément (*), biologo, agronomo, scrittore e paesaggista francese tra i più influenti in Europa, nel suo libro Breve trattato sull’arte involontaria, edito da Quolibet, individua e classifica le diverse categorie dell’arte involontaria. Lo scopo del suo lavoro è di aiutarci e stimolarci ad individuarne la presenza nel nostro quotidiano, nello spazio urbano e post-urbano che abitiamo, fuori dai luoghi ordinari e dagli schemi convenzionali.
Clément disegna, fotografa e descrive questa forma di arte contemporanea spesso ignorata, non firmata, non protetta o promossa da gallerie e musei.
L’arte involontaria di Clément è diventata un movimento artistico vero e proprio che guarda e promuove forme di arte, appunto, involontarie, autogenerative captate e testimoniate grazie agli strumenti ed ai dispositivi di cui oggi abbiamo accesso e, grazie ad essi, diffuse e raccontate sul web e, dunque, nel mondo: video e fotografie, pubblicati in rete, si diffondono attraverso i social network generando così opinioni e dibattito. Una forma d’arte che, disgiunta da fattori economici e di mercato, porta con sé un valore artistico senza implicazioni di sorta. Chiunque incontri un’opera di questo tipo, fatta perlopiù da persone comuni, può adottarla e documentarla tramite fotografie o filmati, renderla visibile, e in questo modo presentarla come propria opera d’arte. Il principio è lo stesso immaginato e promosso da Marcel Duchamp con i suoi storici readymade.
Dunque, in realtà, niente di nuovo: i processi duchampiani consistono soprattutto nell’attesa, nella rivelazione e nel riconoscimento di questo tipo di artisticità involontaria. Doni del caso, spesso poetici, da scovare e documentare tramite l’esercizio dello sguardo, del disegno, della fotografia, del video e anche della scrittura.
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(*) Il lavoro di Gilles Clément si articola su tre tipi di paesaggi:
1. il giardino in movimento, ovvero un giardino non costretto in una forma statica e chiusa dal potere ordinatore dell’uomo ma lasciato evolvere secondo i cicli biologici delle piante, osservato e accompagnato sulla base di piccoli ritocchi e non con interventi forzati e progettati dall’uomo.
2. Il secondo è il Giardino Planetario, ovvero un paesaggio che sfrutti la diversità invece di distruggerla: provare a far funzionare l’intero pianeta in base agli stessi principi per cui un giardino vive in stretto rapporto con il suo giardiniere.
3. L’ultimo è il terzo paesaggio. Nel suo Manifesto del Terzo paesaggio Clément identifica con questa espressione gli spazi costituiti dalla somma dei residui, delle riserve e degli insiemi primari, cioè i luoghi mai sfruttati o antropizzati oppure abbandonati dopo un precedente impiego, che possono elettivamente divenire rifugi per la diversità (Clément – Il Terzo Paesaggio – 2004, p. 7).
Una delle parole chiave del suo pensiero e del suo lavoro è diversità «…si riferisce al numero di specie viventi distinte tra gli animali, i vegetali e gli esseri semplici (batteri, virus, ecc.) essendo il numero umano compreso in una sola e unica specie la cui diversità si esprime attraverso le variazioni etniche e culturali» (ivi, p. 8).
Diversità, dunque, come valore culturale da rivendicare, rispetto all’uniformità a cui tende la globalizzazione selvaggia.