Ciò che si pone, si oppone in quanto si distingue e niente è se stesso senza essere altro dal resto.
Marc Augé
In famiglia, da sempre, abbiamo la preziosa abitudine di discutere e condividere il Mondo. Per dirla alla Luce Irigaray, condividere il mondo, per noi di famiglia, significa rispettare la trascendenza dell’altro cioè la sua irriducibile alterità. In filosofia, l’alterità è il carattere di ciò che è o si presenta come «altro», cioè come diverso, come non identico. L’Altro è il non-io, colui che mi assomiglia ma non è me. L’alterità è anche una delle componenti costitutive dell’identità, senza la presenza e il confronto con l’altro da sé, che sia questo il nostro compagno o la nostra compagna, un figlio, un amico, un’amica, oppure uno straniero, è difficile, se non impossibile, riconoscersi. È nell’altro che troviamo i nostri contorni, che diventiamo ciò che siamo e che, attraverso il rapporto/rispecchiamento, ci riconosciamo. Perdere l’altro significa perdere noi stessi. Ciò non significa dissolversi nell’altro o nell’alterità, ma piuttosto coltivare identità solide, consolidare la propria soggettività per capire ed interpretare, nella migliore maniera, l’intersoggettività. Non sono certo io che affermo quanto sia importante una buona relazione con se stessi e con l’alterità, molti autori e discipline, dalla filosofia alla psicologia, hanno trattato la dinamica di alterità. Ma non mi interessa citare nessuno e nemmeno approfondire l’argomento. Questo meraviglioso termine è solo un pretesto per ricordare quanto noi esseri umani siamo soggetto di relazioni e quanto per noi sia impossibile pensarci in modo autonomo e scisso e che un confronto aperto ma critico all’alterità sia sempre più indispensabile, oltre che naturale, alla nostra stessa vita. Noi siamo solo se l’altro è. E io il mio altro l’ho trovato.
In questo articolo di Obnubi, scritto dal mio Altro, potete leggere di Amici, pittura, pratiche artistiche, sguardo e Mondo.