Ordine e caos sono le due diverse facce della stessa medaglia: l’uno non può esistere senza l’altro.
Il troppo ordine è noioso, ansiogeno, prevedibile; il troppo caos è incomprensibile, ansiogeno e poco interessante. Il concetto di codice si presta a essere inteso non soltanto in relazione al computer ma anche nelle sue accezioni legate alla biologia, all’ambito giuridico e a quello linguistico. Inoltre, l’attenzione al codice caratterizza un ritorno alle radici della storia di tutta la computer art: tutto quanto esce da un computer deriva infatti da un codice binario, che prevede soltanto due alternative (0/1, acceso/spento, on/off). Produrre immagini al computer significa in primo luogo interpretare e tradurre la realtà in questo linguaggio, per poi renderla visibile sullo schermo, pixel dopo pixel. E dunque, quando l’ordine della matematica e della logica, materie fatte di regole, formule e teoremi ben stabiliti, incontra il caos dei colori e delle forme produce arte che genera arte, ovvero arte generativa.
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Il termine arte generativa si riferisce a qualsiasi pratica artistica nella quale l’artista crea un processo, come insieme di regole di un linguaggio naturale, un programma informatico, una macchina, o un meccanismo di altro tipo, che viene poi avviato con un certo grado di autonomia contribuendo a creare o avendo come effetto un’opera finita.
Philip Galanter
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L’arte generativa nasce negli anni Ottanta ed è fondamentale, in questa forma d’arte, il frutto dall’interazione tra l’uomo – che progetta un algoritmo matematico o informatico – e la macchina – che lo esegue potenzialmente all’infinito. Una prima linea di riflessione è proprio quella che si concentra sul processo, sul lavoro del software invece che sul risultato finale e considera la programmazione stessa al pari di una forma di creazione artistica. È questo l’ambito della software art, una delle prime correnti di computer art ad aver preso forma. Secondo Joachim Sauter, tra i fondatori del gruppo tedesco Art+Com, è proprio l’arte generativa a costituire oggi il punto più avanzato della sperimentazione di nuove forme di creatività, ad esempio sistemi interattivi che consentono di generare una forma architettonica a partire dalla musica.
L’arte generativa è soprattutto un atteggiamento, rintracciabile all’interno di tendenze diverse e molteplici. Gli artisti che operano in questo ambito progettano e organizzano insiemi di regole che danno avvio a processi dalle conclusioni non sempre prevedibili, che permettono di generare forme partendo da algoritmi. La pratica non si concentra dunque sull’oggetto artistico ma soprattutto sulle procedure che conducono a determinati risultati. Gli esiti concreti possono essere anche molto diversi fra loro: immagini grafiche fisse o in movimento, composizioni musicali, software performativi. Gli stili che definiscono i vari lavori possono variare ma i metodi di costruzione sono simili, spesso i processi produttivi seguono logiche randomiche, cioè casuali, che rendono irripetibili le singole composizioni. L’arte generativa è una metodologia di lavoro che struttura sistemi complessi e autonomi, all’interno dei quali il controllo sul prodotto finale non è essenziale: una poetica dove il caso è co-produttore di forme artistiche.
Edouard Cabay, fondatore dello studio di architettura sperimentale Appareil e professore presso l’IAAC, Institute for Advanced Architecture of Catalonia, nel 2018, al Centre d’Art Santa Mònica, aveva presentato la mostra Auto-màtic, nata all’interno del progetto di ricerca Machinic Protocols. Il progetto esplorava il potenziale – e i limiti – del disegno generativo, un’attenta riflessione su come l’automazione stia rivoluzionando il modo di lavorare di architetti, designer e creativi in generale. Cabay cita apertamente sia André Breton che la scrittura automatica, pratica artistico-letteraria da lui teorizzata nel 1924. In Auto-màtic una delle protagoniste del processo creativo era anche la tecnologia: computer, bracci robotici e simili dialogavano col foglio bianco. Il titolo della mostra era peraltro un omaggio alle sculture Metá-matics di Jean Tinguely che negli anni Cinquanta aveva riflettuto, anticipando riflessioni simili tutt’ora aperte, sulla dilagante intrusione della tecnologia nella società – e quindi nell’arte – andando a mettere in discussione il ruolo dell’artista, dell’opera d’arte e dello spettatore.
Auto-màtic poneva allo spettatore una domanda piuttosto interessante, molto presente in tanti processi artistici contemporanei: chi è dunque l’autore di un disegno realizzato da una macchina e quindi privo di quell’elemento di autenticità e creatività intrinseco nella mano dell’artista? Secondo Cabay gli autori sono molteplici: gli oltre 120 disegni in mostra sono il frutto di un processo collaborativo tra informatici, programmatori, architetti e designer. Più che all’atto meccanico di per sé, Auto-màtic si riferisce quindi a una metodologia, a un processo automatizzato nel quale l’autore-designer è un semplice spettatore.
Il percorso espositivo era incentrato attorno a tre serie: Plots (2018), Scripts (2017) e Traces (2016). Nella prima, Plots, un protocollo, ossia un set di istruzioni, veniva impartito usando tre linguaggi diversi ad altrettanti esecutori: a un computer sotto forma di algoritmo, a un robot sotto forma di codice numerico e a una persona sotto forma di testo scritto. Ne risultavano tre disegni diversi, così che ognuno dei dieci progetti che componevano la serie assumeva la struttura di un trittico. Ispirata a temi come l’infinità dei movimenti compiuti da una mano o i suoni della quotidianità, la serie esplorava il concetto di copia e la possibilità di ottenere esiti simili utilizzando strumenti e metodologie diversi. Nella serie Scripts impulsi indotti elettronicamente attivavano un meccanismo connesso a una penna, trasformando in visualizzazioni grafiche l’input ricevuto dall’ambiente esterno sotto forma di dati numerici. Riproducevano invece fenomeni fisici come il vento i disegni di Traces, paragonabili a una sorta di time-lapse della natura: era il caso, ad esempio, di un pendolo galleggiante che metteva nero su bianco il ritmo e la frequenza delle onde del mare.
Auto-màtic è stata una mostra in progress: Cabay e i suoi collaboratori si ritrovavano giornalmente per un paio d’ore e sperimentavano con il codice di programmazione delle installazioni. Al piano terra il team aveva creato un dispositivo che dipingeva in stile puntinista, mentre in Vientos de Alisisos una serie di ventilatori disposti a cerchio dialogava con una piccola vela con penna integrata che disegnava senza sosta mossa dai diversi getti d’aria. Nonostante sia abituato a progettare e a lavorare con strumenti di precisione, Cabay è convinto che la bellezza stia nell’imprevisto, nell’imprecisione, nella scoperta: scrivere un protocollo e ideare un dispositivo che lo esegua non equivarrà mai a determinarne l’esito con assoluta certezza.
Edouard Cabay – Machinic Protocols – Auto-màtic, Vientos de Alisios, 2018
Edouard Cabay – Choreography of Repetitions III, BAS, Bergen, 2020