ArteSguardoDavid-Tremlett

Le città invisibili sono cinquantacinque città inventate dalla meravigliosa immaginazione di Italo Calvino, organizzate in undici serie. Hanno nomi esotici di donna: per esempio, c’è Adelma, la città dei morti in cui ogni viso somiglia a quello di una persona che ci ha lasciato, oppure Ottavia, la città-ragnatela sospesa sull’abisso, e poi c’è Leonia (*), la città spazzatura. Un viaggiatore, Marco Polo, le racconta a un imperatore, Kublai Kan, condottiero dei tartari. Sono racconti in cui prende forma la visione di un impero enorme in rovina, senza fine né forma.
Queste città non sono solo descrizioni immaginarie, ci ricordano molte, se non tutte, le città del mondo. Calvino le scrisse come un diario che seguiva i suoi pensieri e solo in un secondo momento diede loro forma nella struttura a serie, un racconto sulla materia di cui sono fatte le città, un insieme di tante cose: memoria, desideri, segni d’un linguaggio. Le città sono luoghi di scambio, di merci come di parole, di desideri, di ricordi e le città invisibili di Calvino sono poemi d’amore proprio nel momento in cui le città mutavano in organismi sempre più grandi e tentacolari.

Leonia è la città dei rifiuti per eccellenza, una città intenta a consumare ed incentrata sull’attività di espulsione degli scarti che essa stessa produce e che acquisisce consapevolezza dal confronto con i comportamenti delle città vicine. In comune con Leonia le nostre città hanno l’economia del consumo che le contraddistingue; uno stile di vita che porta ad una produzione di rifiuti in aumento e la conseguente necessità di gestire non solo la quantità ma anche la natura dei rifiuti che giornalmente vengono prodotti. Fino a qualche decennio fa la situazione descritta da Calvino coincideva con la realtà: l’unico metodo possibile per disfarsi dei rifiuti era quello di allontanarli dalla città per portarli nelle discariche cittadine.
Nel ciclo della gestione dei rifiuti, la discarica è quel luogo dove vengono depositati/stoccati e fatti marcire in modo non selezionato e permanente i rifiuti solidi urbani e tutti gli altri rifiuti (anche umidi) derivanti dalle attività umane (detriti di costruzioni, scarti industriali, ecc.) che, in seguito alla loro raccolta, non è stato possibile riciclare. Oggi, per fortuna, esistono diversi metodi per lo smaltimento dei rifiuti e a livello mondiale vengono promosse quelle normative che consentono di ridurre lo smaltimento dei rifiuti in discarica attraverso politiche di riciclaggio e recupero di materiali.
Viviamo in un’epoca che, Marco Armiero, storico dell’ambiente, definisce wastocene, in cui la responsabilità sociale relativa alla produzione e allo smaltimento dei rifiuti e all’attenzione per il territorio riguarda tutti: amministrazioni pubbliche, comunità locali, cittadini, imprese.
Questa Responsabilità sociale porta con sé 3 sindromi: la sindrome NIMBY (not in my back yard, ovvero non nel mio cortile) indica l’opposizione da parte di membri di una comunità locale alla realizzazione di opere di interesse pubblico sul proprio territorio soprattutto per la mancanza di informazioni e il coinvolgimento dei cittadini. La sindrome NIMTO (not in my terms of office cioè non durante il mio mandato elettorale) si riferisce invece a quegli amministratori e, in generale, a tutte le forze politiche che preferiscono NON decidere ma piuttosto bloccare la realizzazione di infrastrutture e opere di interesse pubblico per non rischiare di perdere il consenso elettorale. Come reazione a questi fenomeni è stato coniato nei paesi anglosassoni l’acronimo PIMBY (please in my back yard, ovvero prego, nel mio cortile) per indicare quei casi in cui i cittadini sono favorevoli ad opere di interesse pubblico sul proprio territorio.

L’interessante vicenda di Peccioli dimostra come la sindrome Nimby e la sindrome Nimto possano essere superate con una corretta informazione, un’amministrazione pubblica capace di decidere ed un modello di partecipazione attiva dei cittadini: la discarica di Legoli, oltre a fare da volano allo sviluppo sociale e culturale, ha prodotto utili dall’impianto di smaltimento e trattamento dei rifiuti che sono stati investiti in cultura, innovazione tecnologica e sostenibilità.
Un impianto di smaltimento e trattamento dei rifiuti avveniristico, quello di Legoli, che estrae materiali riciclabili dai rifiuti indifferenziati e produce energia dal biogas, che in una decina di anni ha prodotto utili per 25 milioni di euro, investiti in energia pulita, in una centrale fotovoltaica, ma anche in progetti solidali, asili, scuole, musei, piste ciclabili, impianti sportivi e centri polivalenti.
Nel 1988, a Peccioli, esisteva già una discarica che ospitava i rifiuti di alcuni comuni della zona ma, a seguito di un riordino che imponeva la chiusura di una serie di discariche, rischiando peraltro di lasciare una situazione di degrado ambientale, il Comune di Peccioli opta per un progetto di risanamento e una gestione virtuosa dei rifiuti. Nel 1997, l’amministrazione comunale propone una soluzione coraggiosa, potenzialmente impopolare: crea Belvedere S.p.A., società pubblico-privata con il 64% delle quote in mano al Comune e il restante ai cittadini – 900 piccoli azionisti di cui 500 sono abitanti del posto – chiamati a diventarne azionisti e, in quanto tali, a intervenire nella gestione dell’impianto nell’ottica di amministrare la discarica in modo partecipato.

Peccioli, nella discarica di Legoli, chiamata anche Triangolo Verde, non smantella, tratta e ricicla solo spazzatura ma produce soprattutto cultura. L’avvallamento della discarica ospita una serie di interventi artistici di arte contemporanea e tutta la zona ospita quattro musei nazionali, un patrimonio archeologico come pochi altri nel mondo e un anfiteatro per concerti ed eventi. Inoltre, l’accostamento tra la tradizione toscana e l’arte contemporanea ha ridisegnato il territorio diventato così un museo a cielo aperto. Ne sono esempi, soprattutto, le sculture Presenze posizionate all’Anfiteatro di Fonte Mazzola e nell’Impianto di Trattamento e Smaltimento Rifiuti, e l’opera Via di Mezzo dell’artista inglese David Tremlett (**), noto per i suoi wall drawing, che riprende i colori delle colline circostanti nel suo intervento al muro di contenimento proprio con quelle forme geometriche che da sempre contraddistinguono la sua pratica artistica.

––––––––––

(*)

«La città, di Leonia rifà se stessa, tutti i giorni: ogni mattina, la popolazione si risveglia, tra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall’involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dall’ultimo modello d’apparecchio.

Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti della Leonia d’ieri aspettano il carro dello spazzaturaio. Non solo tubi di dentifricio schiacciati, lampadine fulminate, giornali, contenitori, materiali d’imballaggio, ma anche scaldabagni, enciclopedie, pianoforti, servizi di porcellana: più che dalle cose che ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l’opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove. Tanto che ci si chiede se la vera passione di Leonia sia davvero come dicono il godere delle cose nuove e diverse, o non piuttosto l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità. Certo è che gli spazzaturai sono accolti come angeli, e il loro compito di rimuovere il resto dell’esistenza di ieri è circondato da un rispetto silenzioso, come un rito che ispira devozione, o forse solo perché una volta portata via la roba nessuno vuole più averci da pensare.

Dove portino ogni giorno il loro carico gli spazzaturai nessuno se lo chiede: fuori della città, certo; ma ogni anno la città s’espande, e gli immondezzai devono arretrare più lontano; l’imponenza del gettito aumenta e le cataste s’innalzano, si stratificano, si dispiegano su un perimetro più vasto. Aggiungi che più l’arte di Leonia eccelle nel fabbricare nuovi materiali, più la spazzatura migliora la sua sostanza, resiste al tempo, alle intemperie, a fermentazioni e combustioni. È una fortezza di rimasugli indistruttibili che circonda Leonia, la sovrasta da ogni lato come un acrocoro di montagne.

Il risultato è questo: che più Leonia espelle roba più ne accumula; le squame del suo passato si saldano in una corazza che non si può togliere; rinnovandosi ogni giorno la città conserva tutta se stessa nella sola forma definitiva: quella delle spazzature d’ieri che s’ammucchiano sulle spazzature dell’altro ieri e di tutti i suoi giorni e anni e lustri.

Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe il mondo, se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo, al di là dell’estremo crinale, immondezzai d’altre città, che anch’esse respingono lontano da sé montagne di rifiuti. Forse il mondo intero, oltre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrotta. I confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano.

Più ne cresce l’altezza, più incombe il pericolo delle frane: basta che un barattolo, un vecchio pneumatico, un fiasco spagliato rotoli dalla parte di Leonia e una valanga di scarpe spaiate, calendari d’anni trascorsi, fori secchi sommergerà la città nel proprio passato che invano tentava di respingere, mescolato con quello delle città limitrofe, finalmente monde: un cataclisma spianerà la sordida catena montuosa, cancellerà ogni traccia della metropoli sempre vestita a nuovo. Già dalle città vicine sono pronti coi rulli compressori: per spianare il suolo, estendersi nel nuovo territorio, ingrandire se stesse, allontanare i nuovi immondezzai.»

Italo Calvino, Le città invisibili, (Le città continue, I, Leonia), pp.119-111, Einaudi, 1974

––––––––––

(**) David Tremlett solitamente lavora su grandi superfici policrome dipinte a mano nuda usando pigmenti in polvere. Questa pratica, che lo stesso Tremlett definisce scultorea, misura e definisce sia lo spazio che i volumi.

L’immagine in evidenza, David Tremlett al Monastero di San Maurizio, è di © Luisa Porta