«Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò ancora, fallirò meglio.»
Samuel Beckett
La nostra capacità di fallire è essenziale per ciò che siamo ed è cruciale rimanere delle creature imperfette, incomplete e soggette all’errore. In altre parole, è fondamentale che ci sia sempre un divario fra ciò che siamo e ciò che potremmo essere. In definitiva, è proprio la nostra capacità di fallire, di produrre costantemente errori, che ci rende umani: in qualche modo, siamo progettati per fallire.
Il fallimento è un banale fenomeno quotidiano che però, nella modernità, ha guadagnato valuta politica. Con la scomparsa delle utopie socialiste e gli sconvolgimenti dell’ex blocco orientale, il fallimento è stato investito di una dimensione aggiuntiva, quasi 20 anni fa, che ha lasciato un’impronta indelebile nella produzione artistica di un’intera generazione.
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Ciò che rimane privo di spiegazione è sufficiente a legittimare l’ipotesi di una coazione a ripetere, che ci pare più originaria, più elementare, più pulsionale di quel principio di piacere di cui non tiene alcun conto.
Sigmund Freud – Al di la del principio di piacere, 1920
La tendenza a ripetere lo stesso errore si chiama coazione a ripetere; la coercizione a compiere ripetutamente le stesse azioni è il principio per cui una persona cerca di superare qualcosa di irrisolto, che affonda le radici nel remoto passato, ponendosi nelle identiche circostanze che provocarono quell’antica difficoltà. La cura per uscire dal limite del ripetersi è l’atto del mostrarsi.
Ma poi, perché ripetiamo lo stesso errore? In realtà, tendiamo a ripetere la stessa soluzione e non lo stesso errore. Ognuno di noi, in passato, ha adottato una strategia, una soluzione per uscire da certe difficoltà; questa strategia ha delle conseguenze e tra queste c’è anche l’errore. Lo facciamo perché ci sembra istintivamente la cosa più ovvia e giusta da fare, esattamente come lo è stato in passato, ma il fatto che lo sia stato in passato non ci costringe a ripeterlo in futuro, anche perché spesso la stessa strategia può provocare più danni che benefici. Allora perché lo facciamo? Semplicemente perché le soluzioni a noi più familiari o le abitudini (anche se sbagliate) ci sembrano le più giuste se non addirittura le uniche. Per evitare la reiterazione, la strada è quella della consapevolezza nel riconoscere il meccanismo del quale si è vittime e di essere capaci di frenarsi quando questa abitudine si manifesta.
Prendere atto delle proprie azioni, riconoscere i propri errori, i propri fallimenti, significa mostrarsi – e mostrare. Ed è quello che fa Cesare Pietroiusti. La sua pratica artistica è di tipo performativo e relazionale, tra sperimentazione linguistica e riflessione concettuale. L’arte relazionale si sviluppa attorno alla metà degli anni Novanta e prevede la partecipazione del pubblico alla costruzione o alla definizione dell’opera. Dunque, un’arte dalle spiccate caratteristiche politiche e sociali in cui l’artista presenta dispositivi in grado di attivare la creatività dello spettatore trasformando l’oggetto d’arte in un luogo di dialogo, confronto e, appunto, di relazione in cui l’opera finale perde importanza e assumono invece centralità il processo, la scoperta dell’altro, l’incontro.
La ricerca artistica di Cesare Pietroiusti (la sua è una formazione scientifica – arriva all’arte dalla medicina psichiatrica) è focalizzata sull’analisi e sull’osservazione di situazioni problematiche o paradossali, celate nella quotidianità e nella normalità. Non esattamente le patologie esaminate dalla psicoanalisi e dalla psichiatria, ma più i modi di percepire, di vedere o non vedere, tutti quei comportamenti che appartengono alla vita quotidiana di ognuno di noi: pensieri che nascono senza un motivo apparente, piccole preoccupazioni, quasi ossessioni, considerate troppo insignificanti per diventare motivo di analisi o di auto-rappresentazione.
Nel 1997 realizza per le Edizioni Morra, i Pensieri non funzionali, una raccolta di idee apparentemente immotivate e inutilizzabili che nel 2008, diventa un sito. I Pensieri non funzionali sono una serie di inviti al pubblico a mettere in pratica idee che nascono nell’assenza di concentrazione, inservibili e senza causa apparente. Mettere in atto i pensieri non funzionali vuol dire aprirsi a orizzonti non immediatamente finalizzati, affidandosi a quei pensieri random che occupano la nostra mente senza permesso. Descrive così i sui Pensieri disfunzionali:
«All’inizio dell’anno 1997 mi sono dato un compito: annotare per iscritto tutti i pensieri non funzionali che mi sarebbero venuti in mente e che in qualche modo sarebbero potuti diventare un’azione, un gesto comunicabile, un lavoro. Come supporto materiale su cui scrivere queste annotazioni ho pensato di utilizzare dei giornali quotidiani e ne ho scelti due – “L’Unità” e “Il Foglio” – che ho quindi (quasi) sistematicamente acquistato e portato con me, per potere mettere su carta i vari pensieri non appena essi si fossero manifestati. Poiché la “comparsa” di un pensiero non funzionale è sostanzialmente imprevedibile, e può essere indotta da qualcosa che si vede, o che si sta facendo o, per associazione, da qualche altra cosa che si sta pensando, non sempre ho avuto la possibilità di trascrivere immediatamente quello che pensavo; nonostante lo sforzo volontario fatto, di concentrarsi e ricordare tutto, la labilità di questa produzione mentale ha determinato, oltre ad una generale difficoltà di “messa a fuoco” (riportare il pensiero in parole), una scarsa permanenza in memoria e, di conseguenza, la scomparsa (che comunque, a volte, non è irreversibile) di una certa percentuale di pensieri. Inoltre ho più volte esercitato una funzione di selezione e scartato, spesso attraverso una forma di volontaria dimenticanza, i pensieri che mi sembravano insulsi o troppo poco interessanti.
Quelli trascritti sono espressi con un linguaggio elementare, ma sempre tenendo presente la necessità della comprensibilità: come accade per i sogni, l’annotazione eccessivamente sommaria rischia, dopo poco tempo, di non significare più nulla e di non trovare più alcun posto in una storia o, appunto, in un pensiero, anche agli occhi di chi l’ha scritta.
Questi pensieri, mi rendo conto a posteriori, possono essere abbastanza facilmente classificati secondo 4 – 5 categorie: progetti o “compiti” di azioni stranianti e innaturali; classificazione di elementi del paesaggio urbano o di quello interiore, nonché di meccanismi relazionali; annotazione di fenomeni non ordinari; osservazione ed ordinamento “statistico” di eventi comuni. Sono comunque propenso a credere che, se altre persone facessero lo stesso esercizio, si renderebbero necessarie categorie differenti.
La frequenza della comparsa di questa produzione mentale è stata alquanto alterna, ovviamente anche in concomitanza con fattori personali contingenti. Verso la seconda metà di marzo, più o meno quando ho deciso definitivamente di utilizzare il materiale che si stava accumulando (giornali e pensieri) per questa mostra, la “produzione” è dapprima rallentata e poi si è praticamente arrestata. Dopo qualche giorno, di conseguenza, ho deciso che il compito che mi ero dato all’inizio dell’anno era esaurito.»
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Inoltre, di fondamentale importanza per Pietroiusti è anche il rapporto con lo spazio: «Il mio rapporto con lo spazio: non aggiungere nulla. Detto questo, quando io parlo di spazio non parlo mai solo di spazio fisico, di una stanza o della galleria. Di spazi ne conosco almeno tre – oltre allo spazio fisico (il luogo), c’è lo spazio sociale (il sistema) e, ovviamente lo spazio mentale (il pensiero) – e ciascuno ha una dialettica propria e modalità dinamiche di incrocio, scambio, conferma, con gli altri. E se parlo di “spostamenti”, di creazione di spazi, sulle dinamiche che ne caratterizzano gli incroci, e che si possa allargare il dominio della coscienza o dell’esperienza rispetto a spazi (fisici, psichici o di sistema) che non sono ancora stati esplorati o considerati praticabili. Questo fa l’arte. Crea questi spazi, offrendo la possibilità di uno spostamento».
Il suo intero lavoro artistico è perciò un disegno relazionale, connettivo, comunitario, collettivo, che, se da una parte fa pensare, per affinità, a Marcel Duchamp e Piero Manzoni, dall’altra apre un mondo transmediatico e pluridisciplinare che trasforma il messaggio in un massaggio attivatore di pensiero.