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Il nostro è oramai un mondo di plastica. Dipendiamo da questo materiale largamente inquinante e difficile da riciclare.

La plastica è il terzo materiale prodotto dall’uomo più diffuso sul pianeta, dopo l’acciaio e il cemento: più di 8 miliardi di tonnellate di plastica, il doppio della biomassa di tutti gli animali terrestri e marini, è quello cha abbiamo prodotto, consumato e abbandonato a partire dagli anni ’60. E di tutta la plastica prodotta più del 70% è già un rifiuto. Solo negli oceani, ogni anno, approdano più di 11 milioni di tonnellate di plastica: tutti sanno che cosa sia la Great Pacific Garbage Patch ma forse non tutti sanno che di queste isole al momento, nel mondo, ce ne sono ben 5 di cui questa è la più famosa e la più grande. La scoperta di questo materiale onnipresente, gli sviluppi recenti e i principali eventi della sua storia li potete approfondire sul sito di COREPLA.

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Amo Los Angeles. Amo Hollywood. Sono bellissime. Sono tutte di plastica, ma io amo la plastica. Voglio essere di plastica.

Andy Warhol

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A metà del ‘700 il geografo e matematico francese Charles Marie de La Condamine raccontava che gli indigeni usavano un materiale ricavato da uno strano albero, quello della gomma, per realizzare statuine, palle, fasce e nastri. Nell’800 Charles Mackintosh scopriva che trattando il cotone con la gomma quello si impermeabilizzava, inventando il Mackintosh, il primo soprabito impermeabile. La Parkesine, il primo vero materiale plastico, realizzata in laboratorio da un chimico inglese, Alexander Parkes, è del 1861 ed è del 1907 la prima plastica interamente sintetica, la Bachelite, scoperta dal chimico belga Leo Baekeland. Da lì in poi la plastica conquista il mondo: il primo tubetto di dentifricio in plastica (1892); la prima bottiglia di plastica ed il primo nastro adesivo (1930); il primo clarinetto in plastica (1948); il primo asciugacapelli portatile (1961); il primo prototipo di auto in plastica (1964); la prima bandiera americana piantata sul suolo lunare, di nylon (1969); il primo cuore artificiale in plastica (1984).

Per il resto basta guardarsi attorno per vedere un mare di plastica. Affoghiamo quotidianamente in una serie di molecole che derivano dalla diretta lavorazione del petrolio, sono diventate una parte importante della nostra vita. La plastica ci accompagna quando ci muoviamo, è nelle nostre automobili, nei treni e negli aerei che usiamo, è nelle nostre case, nell’arredamento, e nell’abbigliamento che indossiamo, la moda ne è impregnata. L’arte, le molecole che compongono la plastica, le usa e le integra nei suoi processi e nelle sue opere. Sono già diversi i musei, in Italia, dedicati alla plastica: i più conosciuti sono la Fondazione Plart a Napoli; il progetto Archeoplastica, il Museo della Plastica di Pont Canavese. Il sito della Plastic Collection della biblioteca universitaria di Syracuse, nello stato di New York, raccoglie 5000 oggetti in plastica, la metà dei quali digitalizzati e divisi per materiali, settore e azienda produttrice.

L’ingresso delle materie plastiche nel mondo dell’arte coincide con la nascita delle avanguardie anche se è dovuto soprattutto alla sperimentazione operata sulle potenzialità formaliste della materia da parte di artisti razionalisti, inizialmente inseriti nel filone costruttivista, e poi da parte di artisti partecipanti al progetto del Bauhaus. Primo fra tutti Naum Gabo che ha navigato le acque inesplorate dei materiali sintetici con l’uso sperimentale della celluloide, nome commerciale del nitrato di cellulosa: un prodotto innovativo realizzato con cotone trattato chimicamente, facilmente plasmabile in una miriade di forme. Ispirato dalla sua leggerezza e trasparenza, nonché dalla facilità di lavorazione, Naum Gabo ha iniziato a utilizzare la celluloide per la costruzione delle sue opere tridimensionali, cercando di esplorare tutti i possibili effetti ottici, di luminosità e trasparenza offerti dal nuovo materiale. Sebbene le prime opere documentate risalgano al 1916, l’artista aveva già realizzato negli anni precedenti sculture con parti di questo nuovo materiale. Sfortunatamente, la celluloide, soprattutto all’inizio, si è rivelata un prodotto instabile e la maggior parte dei suoi primi lavori è andata completamente perduta a causa del deterioramento. Quando, qualche anno dopo, fu introdotto sul mercato l’acetato di cellulosa Naum Gabo inizierà a utilizzare questo nuovo materiale più stabile. Per Gabo, l’idea scultorea stessa era significativa, più della sua materialità o anche dell’idea di essere fatta dalla mano dell’artista: non dava molta importanza al concetto di qualcosa di originale. Infatti, la maggior parte delle opere di Gabo che oggi possiamo ammirare nei musei sono state ricostruite ex novo o ricostruite dall’artista stesso. A metà degli anni ’30 Gabo iniziò ad utilizzare quello che commercialmente era conosciuto come Perspex o Plexiglas, che riuscì ad ottenere ancor prima che fosse disponibile sul mercato grazie alla conoscenza con il direttore dell’industria britannica che lo aveva inventato. Infine, nel 1942, scopre le potenzialità del Nylon, allora un materiale sintetico di recente sviluppo sotto forma di fibre e filamenti, che da quel momento in poi utilizzerà sistematicamente nel suo corpo di lavoro.

Non sorprende che artisti aperti all’innovazione abbiano sfruttato i nuovi composti polimerici sintetici fin dalla loro prima comparsa e disponibilità e con la seconda guerra mondiale finisce la fase pionieristica dell’uso dei materiali sintetici e la plastica entra lentamente a far parte del quotidiano.

Alberto Burri, Grande rosso P. N. 18, 1964, 200 x 180 cm – La Galleria Nazionale, Roma

È il 1953 quando Alberto Burri inizia a rimodellare questo materiale nuovo, la plastica, servendosi di un elemento antichissimo, il fuoco. Inizia a bruciare prima il legno e poi la plastica, simbolo di una nuova civiltà fondata sul consumo, un materiale che si trovava dappertutto e in varie consistenze, dalle più morbide alle più resistenti, assumendo nomi diversi. Nylon, formica, cellophane, Moplen. Quest’ultima, il Moplen, ce la raccontava Gino Bramieri in un carosello storico: Signora, guardi bene che sia fatta di Moplen. 

Dagli anni ’60 l’uso della plastica nelle sculture e nelle installazioni è diventato sempre più diffuso: artisti di tutti i generi hanno esplorato le potenzialità espressive di questo materiale in tutte le sue forme, dalle resine acriliche ed epossidiche al poliuretano, al poliestere. Il PVC, materiale che compare all’inizio degli anni ’60 nel mondo dei prodotti in plastica, affascinerà Christo e Jeanne-Claude: un materiale perfetto per i loro pacchetti.

Per César, la plastica migliore si è rivelata essere il poliuretano espanso, una sorta di schiuma che cristallizza a contatto con l’aria e aumenta notevolmente il proprio volume. La libertà associata alle immense possibilità espressive di questo materiale sintetico diventa oggetto di happening e lo fa conoscere in tutto il mondo.

La stessa schiuma poliuretanica – seppure in forma leggermente diversa – ha interessato una buona parte del lavoro di Piero Gilardi e la sua fedele, seppur morbida, riproduzione di scenari naturali. I Tappeti-Natura sono una serie di oggetti in resina poliuretanica espansa che riproducono, in scala reale e nei minimi dettagli, proprio habitat naturali.

Piero Gilardi, Tappeti Natura

Dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, Craig Kauffman, esponente del minimalismo californiano, in quegli stessi anni porta avanti audaci esperimenti nello stampaggio di plastica industriale per creare eteree sculture a parete ispirate agli imballaggi in plastica sempre più utilizzati per avvolgere la merce, nonché rilievi di plastica termoformata in colori lussureggianti.

Paradossalmente la plastica, generalmente identificata come il materiale a più alto rischio di inquinamento ambientale perché rimane indefinitamente come rifiuto solido, nel mondo dell’arte è talvolta considerata non permanente e inadeguata all’uso artistico perché facilmente alterabile. La questione è che questi materiali sono stati pensati per scopi ben diversi da un uso artistico e la durabilità necessaria per un’opera d’arte supera di gran lunga quella degli oggetti con usi domestici monouso. Con il passare del tempo, le materie plastiche ingialliscono, sbiadiscono o si scuriscono, ma anche si incrinano, si deformano e si sgretolano, deteriorandosi in modo mutevole e imprevedibile. Inoltre, lo stesso tipo di materiale prodotto in tempi diversi può mostrare diversa stabilità all’invecchiamento poiché il miglioramento delle tecnologie di produzione ha fornito al mercato prodotti di qualità progressivamente migliore. Di conseguenza, una diversa origine in termini di produzione o età può causare comportamenti del materiale molto diversi.

L’arte contemporanea richiede un livello estremamente elevato di conoscenze tecniche e gli artisti devono essere consapevoli dei rischi che corrono quando utilizzano determinate tecniche o materiali sia in termini di durata del loro lavoro che di salute. L’approccio di Rachel Whiteread alla sua opera Embankment, commissionata per la Turbine Hall della Tate Modern di Londra, con un’intensità più intima, ricorda in parte la spazialità minimalista. Quest’opera di scala monumentale è coerente con la pratica dell’artista di usare oggetti domestici familiari in una forma inaspettata. Ispirate a una vecchia e consunta scatola di cartone trovata nella casa della madre, pile di 14.000 scatole di polietilene bianco semitrasparente impilate una sull’altra formano volumi a tratti regolari, a tratti disordinati, alcuni alti anche dodici metri, che compongono un labirinto calpestatile dai visitatori.

Rachel Whiteread, Embankment, 2005

César ha manipolato grandi quantità di sostanze pericolose per diversi anni fino a quando ha dovuto smettere a causa dei danni che gli stavano causando; per Duane Hanson, la realizzazione delle sue sculture in vetroresina senza prendere le dovute precauzioni gli ha causato la malattia che gli è stata fatale. Anche Alberto Burri ci si è giocato i polmoni a furia di bruciare plastiche senza troppe precauzioni.

Dopotutto, la storia dei materiali sintetici è così recente che è difficile prevedere cosa porterà il futuro; se i conservatori di oggi assorbono la conoscenza delle generazioni precedenti di tessuti, bronzi, carta, marmo e colori ad olio su tela, preservare la plastica è una sfida completamente nuova e diversa, e un approccio consapevole è l’unico modo per preservare l’arte del nostro secolo per generazioni future.

Ma di plastica e arte, in questo mio spazio, parlerò ancora…